Autoreferenzialità, un limite alla crescita professionale

Autoreferenzialità

La personalità può favorire lo sviluppo professionale ed essere un elemento sinergico della crescita oppure può essere l’elemento disfunzionale

La personalità è il frutto del vissuto personale, della propria storia. In parte dovuta a tratti ereditari, in parte dovuta all’educazione e in parte dovuta all’ambiente. Sono le esperienze di vita che forgiano e modellano la personalità. Mi piace dire che le persone vanno bene come sono, perché sono il frutto del loro passato e pertanto uniche e irripetibili. 

E’ importante comprendere che  nel momento in cui si assume un ruolo, scattano le aspettative di ruolo, e per essere soddisfatti e dare soddisfazioni, è molto importante comprendere questo passaggio. 

La persona con la sua personalità interpreta sempre un ruolo nella sua storia, in particolare modo nelle relazioni.

Immaginiamo la vita come un grande set teatrale in cui i molteplici ruoli che interpretiamo ogni giorno, raccontano la nostra vita. Siamo a volte figli, a volte genitori, siamo fratelli, cugini o parenti, legati da chissà quale filo del destino, siamo vicini di casa, amici, pedoni, ciclisti, automobilisti, acquirenti, avventori, e siamo professionisti. La nostra storia ci racconta nei ruoli, ad alcuni ruoli aderiamo meglio e  ad altri meno,  proprio a causa o grazie alla personalità.

La personalità è solitamente animata dai valori, si muove e agisce in base a ciò che ritiene importante e utile o  attrattivo, e solitamente fugge da ciò che è scomodo, fastidioso o doloroso. 

La capacità di riconoscere quali sono i comportamenti  attesi in un determinato ruolo ed in un determinato contesto, è una capacità fondamentale, indice di maturità. Facciamo il paragone con gli studenti: quand’è che l’alunno o lo studente viene gratificato, premiato, riconosciuto e apprezzato nella sua performance scolastica? Quando aderisce alle regole della scuola, quando adotta i comportamenti previsti dal contesto, in base alla sua età. Quando arriva puntuale a scuola, quando rispetta compagni e insegnanti, quando partecipa con interesse alle lezioni, quando studia con costanza, quando supera gli esami ovvero, quando soddisfa le aspettative del ruolo di studente, quando adotta i comportamenti previsti dal ruolo. Prima lo studente capisce cosa la scuola si aspetta da lui, prima può dare e ricevere soddisfazioni in quell’ambito. 

La stessa cosa succede nel lavoro: prima si capisce quali sono i comportamenti attesi dal contesto in quel ruolo e prima si alza la cura della performance. Ci sono i comportamenti previsti “per legge” o “per deontologia” e quelli attesi nel contesto specifico. Ci sono  3 parametri che misurano le performance di qualunque lavoro:  Puntualità, affidabilità e precisione. Arrivare puntuali, essere puntuali è il primo modo di iniziare a dare e a ricevere soddisfazioni. Fare ciò che viene chiesto e avvisare nel caso in cui non si riesca ad evadere la richiesta  è il principio dell’affidabilità, mentre  essere precisi nelle proprie azioni è un modo elementare ma certo, per essere riconosciuti e gratificati nel lavoro. 

Eppure, questo principio apparentemente semplice (riconoscere i comportamenti previsti nel ruolo ed esserne all’altezza) è disatteso moltissime volte a causa della personalità. 

Davanti a un comportamento disatteso o disfunzionale, le persone autoreferenziali (e quindi fragili) accampano mille alibi e legittimazioni del comportamento disfunzionale,  che vanno da concessioni sull’età come ”alla mia età, ormai,  a tot anni posso anche permettermi di …”, a situazioni in cui le responsabilità (vissute come colpe), vengono scaricate all’esterno, sugli altri o sul destino. Manca la capacità di ammettere che si è sbagliato ad agire, che si è commesso un errore, che si è adottato un comportamento poco funzionale al ruolo o al contesto o agli obiettivi prefissi. 

Perché è fondamentale riconoscere quando si sbaglia o si adottano comportamenti disfunzionali? Perché riconoscerlo rimette in moto e  nel verso giusto il processo di miglioramento e crescita. 

Le performance professionali sono date dall’attività pratica, (dalle mansioni previste nel ruolo),  dall’aggiornamento delle conoscenze e dalle capacità relazionali. È il perfetto equilibrio di queste capacità che porta alla definizione  di competenza professionale

Nel mio ruolo di consulente e Coach, ho incontrato molte persone con capacità manuali eccellenti, conoscenze costantemente aggiornate ed orientate all’eccellenza, e pessime capacità relazionali. Oppure ho incontrato persone con capacità manuali di base, un buon aggiornamento delle conoscenze e capacità relazionali strepitose, nonché persone con eccellenti conoscenze, ottime capacità relazionali ma assolutamente impediti dal punto di vista pratico operativo.

A prescindere dall’elemento squilibrato della competenza, in assenza di autoreferenzialità, ognuno di loro  è migliorato. È stato sufficiente identificare “il problema” (di abilità, di conoscenza o di relazione), riconoscerlo come tale, proporre attività e soluzioni – strategie giuste in funzione del ruolo, e la curva della performance è ripartita alla grande per ognuno. 

Spesso invece, il rifiuto di riconoscere che alcuni comportamenti sono disfunzionali al ruolo o agli obiettivi che la persona si è posta, e l’assenza di umiltà nel riconoscere il problema, porta dei loop autoreferenziali (con sindrome da incompreso),  finiscono per generare stress e insoddisfazione. 

Ad alcune persone non piace sentirsi dire che sono loro stessi  la causa dei loro problemi, perché sono fragili e fanno fatica ad accettare l’idea di sbagliare,  oppure perché hanno una idea antica della competenza. Molti anni fa, infatti,  era sufficiente avere uno dei tre parametri della competenza sviluppati ( sapere saper essere saper fare) per essere considerati competenti.  Alcuni  perché sono personalità disturbate, che non hanno elaborato situazioni o eventi traumatici del loro vissuto e persistono con comportamenti reattivi, decontestualizzati, imputando al contesto o agli altri la “colpa”, incapaci di mantenere  comportamenti adulti e comportamenti  previsti dal loro  ruolo anche in situazioni di stress. 

Il coaching può senza dubbio aiutare nei primi due casi, può aiutare a comprendere come riconoscere un comportamento disfunzionale o inadeguato e come individuare  il modo alternativo  di agire. Il coaching può aiutare la persona a capire come l’evoluzione abbia alzato l’asticella della competizione e di come sia importante allineare le 3 abilità per restare sul mercato ed essere competitivi. 

Per le personalità disturbate da traumi del passato, non elaborati, che persistono con comportamenti disfunzionali è difficile che il coaching funzioni e può essere necessario suggerire il supporto di un terapeuta che lavori sulla personalità. 

In qualità di Coach valuto le performance professionali  con una griglia oggettiva, che mira ad isolare i comportamenti disfunzionali in base al ruolo, così da restituirli al coachee e dargli la possibilità di correggerli. È impressionante la quantità di persone che va in crisi quando il feedback che ricevono non è “glitterato”.

La maggiore difficoltà la riscontro nei professionisti nel ruolo di imprenditori, alle prese con la gestione dei team. Professionisti affermati che hanno raggiunto il successo e che faticano a capire che ciò che ha funzionato per loro non sempre va bene anche per il team. Spesso costringono i team  ad accelerare e decelerare in base al proprio sentire autoreferenziale, impostando progetti programmi e riunioni che poi puntualmente disattendono perché hanno priorità diverse da quelle previste, parlando “di pancia” ai team nelle riunioni in base” alla luna del giorno”,  condizionando umori e comportamenti, lasciandosi andare a comportamenti e frasi spesso incoerenti con l’ordine del giorno. Invece di guidare, disorientano i  team.

Quando fotografo con luce fredda comportamenti simili  ed isolo quelli che è necessario  modificare in funzione degli obiettivi di coaching prefissi (che di solito sono: imparare a gestire in modo efficace il team, adottando parametri oggettivi per la misurazione delle performance) ad alcuni Leader proprio non va giù di riconoscere che loro sono parte del problema  e preferiscono circondarsi di yes man, persone che non li mettono in discussione e  che semplificano la vita. 

Se volete evitare di cadere nel circo dell’autoreferenzialità che condiziona e boicotta il vostro potenziale di crescita, ascoltate con maggiore attenzione chi vi dice dove sbagliate esattamente e come secondo lui dovreste agire in funzione dell’obiettivo prefisso. Si apre un’opportunità di riflessione ascoltando chi ha il coraggio di dirvi che secondo lui è sbagliato e indica una via alternativa. 

I benefici di un feedback oggettivo e circostanziato sono innumerevoli e riconoscere dove esattamente si è sbagliato e cosa, è il modo perfetto per riattivare la curva della performance. 

“Chiunque può sbagliare, ma nessuno, se non è uno sciocco, persevera nell’errore.”

Se l’autoreferenzialità è un balsamo per il nostro ego e un placebo per la guarigione, un feedback circostanziato e preciso è invece la cura.

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