Se non lo sai dire, non lo sai fare: il linguaggio come specchio della competenza professionale

Linguaggio e competenza professionale

“Dimmi come parli e ti dirò chi sei” – in ambito professionale – potremmo tradurlo così: “Dimmi che linguaggio usi e ti dirò quanto ne sai davvero.”

In ogni disciplina, in ogni ruolo, in ogni ambito strutturato della conoscenza e della pratica professionale, il linguaggio è un segnale di competenza. Non solo perché le parole definiscono la realtà, ma perché il modo in cui le scegliamo e le utilizziamo riflette il nostro grado di padronanza dei contenuti, dei processi, delle responsabilità e delle priorità.

Dal banco di scuola al contesto professionale

A partire dalla scuola primaria, fino all’università, la conoscenza di un lessico specifico è il primo indizio che permette a un insegnante di comprendere se uno studente ha veramente capito la materia o se sta semplicemente “girando intorno” agli argomenti.

Facciamo alcuni esempi concreti:

Alle elementari, un bambino può indicare su una mappa “le cose costruite dalle persone”, ma se riesce a dire “questi sono elementi antropici del paesaggio”, sta dimostrando di aver appreso non solo il concetto, ma anche il linguaggio specifico della disciplina.
Ricordo mio figlio che, a sei anni, mi disse che doveva riconoscere e indicare su una mappa stradale gli elementi naturali e quelli antropici. Era evidente che la capacità di nominare correttamente quegli elementi dimostrava che era stato attento a scuola e che aveva compreso il concetto, non solo dal punto di vista pratico, ma anche lessicale. L’uso corretto di quella parola insolita per la sua età segnalava che il pensiero si stava strutturando in modo più consapevole.

Alle medie, in geometria, uno studente potrebbe dire “questo è un triangolo con due lati uguali”, ma chi ha acquisito il linguaggio specifico parlerà di “triangolo isoscele con due lati congruenti e angoli adiacenti alla base uguali”. In questo secondo caso, l’uso corretto dei termini (isoscele, congruenti, adiacenti) mostra non solo che lo studente ha capito la figura, ma che sa descriverla secondo i codici della disciplina. E proprio questa capacità di nominare correttamente, anche quando il concetto è noto, rappresenta il passaggio da una comprensione intuitiva a una competenza formalizzata.

Alle superiori, in diritto, affermare “lo Stato decide le regole” è una semplificazione. Un buon studente dirà “il potere legislativo è esercitato dal Parlamento, secondo quanto stabilito dalla Costituzione, nel rispetto del principio di legalità”. In questo caso, il lessico istituzionale e giuridico evidenzia una competenza formale della materia.

Identicamente all’università, uno studente di odontoiatria che parla genericamente di “fare un’otturazione” sta semplicemente descrivendo un’azione. Ma chi saprà dire “ho eseguito una ricostruzione in composito su dente 2.6 con tecnica stratificata e controllo occlusale finale” dimostrerà non solo padronanza del linguaggio clinico, ma capacità di collocare correttamente l’intervento nel contesto tecnico, anatomico e procedurale. È il linguaggio a testimoniare il livello di competenza raggiunto.

Valorizzare il proprio lavoro con le parole giuste: la comunicazione con il paziente

Se il linguaggio tecnico è il primo indicatore della competenza professionale tra colleghi, la capacità di spiegare il proprio lavoro al paziente, con chiarezza e misura, è ciò che lo rende comprensibile e, soprattutto, percepito come di valore.

Ogni odontoiatra dovrebbe saper tradurre la complessità della prestazione clinica in un linguaggio accessibile, senza banalizzarla. È un equilibrio delicato: spiegare non significa semplificare fino a svuotare di significato ciò che si fa, ma offrire al paziente una narrazione adeguata alla sua capacità di ascolto, comprensione e interesse.

Ci sono pazienti che preferiscono spiegazioni rapide, essenziali, orientate al risultato finale: “Mi interessa sapere che starò bene e che il dente sarà a posto.”

Altri, invece, vogliono comprendere il perché di ogni scelta, la tecnica utilizzata, i materiali impiegati, la differenza tra un’opzione e l’altra.

In entrambi i casi, è la qualità della comunicazione a fare la differenza, perché un intervento eccellente ma mal spiegato può sembrare superficiale, mentre una prestazione ben raccontata – con competenza, rispetto e attenzione – viene percepita come più professionale e più “curata”.

Saper modulare la spiegazione in base all’interlocutore è una competenza chiave della comunicazione clinica.

Non si tratta solo di educare il paziente alla salute orale, ma anche di attribuire il giusto valore al proprio operato, facendo emergere la complessità, la competenza e la cura che ogni trattamento comporta.

Un paziente che comprende cosa gli è stato fatto, perché è stato fatto in quel modo e quali benefici ne trae, è un paziente più consapevole, più soddisfatto, più fidelizzato.

E questo – oltre ad essere un valore etico – è anche un vantaggio professionale e gestionale per la struttura odontoiatrica.

Il linguaggio della relazione: la competenza comunicativa come base del lavoro professionale

Nel mondo del lavoro – e ancor più nel settore sanitario – non basta sapere cosa dire, né come dirlo tecnicamente. È fondamentale saper comunicare in modo professionale, con rispetto, consapevolezza, misura.

Ogni ruolo ha un suo linguaggio tecnico – il lessico del mestiere – ma la competenza comunicativa deve essere trasversale a tutti i ruoli, indipendentemente dalla posizione gerarchica o dalla specializzazione. Senza questa competenza, anche il sapere più elevato rischia di trasformarsi in qualcosa di respingente, ostile, o addirittura dannoso.

La comunicazione “di pancia”: quando le emozioni prendono il controllo

Troppo spesso, all’interno dei contesti di lavoro – e il settore odontoiatrico non fa eccezione – ci si imbatte in persone che comunicano di impulso, senza filtro, senza consapevolezza del tono, delle parole scelte, dell’impatto relazionale.

Una comunicazione emotivamente disfunzionale, non filtrata né elaborata, finisce per intossicare i rapporti professionali e compromettere il benessere lavorativo, generando un clima pesante, conflittuale, demotivante.

Ecco alcuni esempi emblematici di comunicazione tossica:

    • Medici che non parlano ai pazienti, o che li trattano con freddezza e superiorità, ignorando il bisogno di rassicurazione, empatia e spiegazione. L’autorevolezza non si manifesta nel silenzio distaccato, ma nella capacità di trasferire conoscenze con umanità e chiarezza.
    • Ausiliari e assistenti che seguono questi modelli disfunzionali, adottando un tono brusco o passivo-aggressivo con pazienti e colleghi, alimentando più o meno consapevolmente un clima di ostilità.
  • Amministrativi o receptionist che comunicano con rigidità, tono scocciato o linguaggio svalutante, generando disagio nei pazienti e tensioni nel team. In alcuni casi, il modo di comunicare rasenta atteggiamenti assimilabili al mobbing, con messaggi velati di sarcasmo, esclusione o giudizio.

In questi contesti, il problema non è solo il contenuto dei messaggi, ma il modo in cui vengono espressi: parole lanciate come colpi, silenzi che diventano punizioni, frasi cariche di irritazione, ironia velenosa o indifferenza.

Tutto questo avvelena il clima relazionale, mina la motivazione e toglie dignità al lavoro. L’ambiente diventa tossico non per l’intensità delle mansioni, ma per l’assenza di cultura comunicativa. E senza comunicazione consapevole, non può esistere collaborazione, fiducia né reale efficacia.

Comunicare nel ruolo: la formazione che nessuno dovrebbe trascurare

Se c’è una formazione che ogni professionista, in qualunque ambito, dovrebbe affrontare in modo continuativo è quella sulla comunicazione professionale.
Non parliamo solo di public speaking o di tecniche di persuasione, ma di competenze comunicative essenziali alla convivenza organizzativa e alla qualità relazionale nei team e con i pazienti.

Ci sono due grandi aree in cui la comunicazione dovrebbe essere oggetto di formazione continua:

  1. La comunicazione interna, quando si manifestano dinamiche disfunzionali, tensioni, incomprensioni, scarsa collaborazione o atteggiamenti tossici.
  2. La comunicazione con il paziente, quando manca la capacità di valorizzare adeguatamente i servizi, di spiegare, rassicurare, accompagnare nelle scelte terapeutiche.

Inoltre, esistono contesti ad alta complessità emotiva in cui la qualità della comunicazione fa la differenza:

  • saper comunicare quando si affronta un contrasto di opinioni;
  • saper comunicare con una persona “sequestrata emotivamente” (ossia dominata dalla propria reazione emotiva);
  • saper comunicare per mediare un conflitto, che è spesso il frutto di un disaccordo non gestito e lasciato covare fino all’esplosione.

E infine: saper comunicare nel ruolo.
Perché la vera questione non è saper comunicare sempre, ma saperlo fare in modo coerente con il proprio ruolo professionale.

Il ruolo determina il registro: esempi emblematici

Immaginiamo alcune figure istituzionali o professionali:

  • Un Presidente della Repubblica che usa un linguaggio approssimativo o aggressivo perderebbe immediatamente autorevolezza. Dal suo ruolo ci si aspetta equilibrio, misura, sobrietà. Non può “parlare come gli viene”, anche se lo pensasse.
  • Un docente non può comunicare con lo stesso tono con cui si confronta con amici al bar. Anche il linguaggio con cui corregge o guida deve riflettere la sua funzione educativa.
  • Un militare, durante una cerimonia ufficiale o un’operazione, non può permettersi ambiguità comunicative: il linguaggio è codificato, preciso, essenziale. Da questo dipendono fiducia, sicurezza e disciplina.
  • Un medico non può comunicare al paziente informazioni sanitarie come se stesse parlando di un fatto qualunque. Deve scegliere le parole giuste, gestire il tono, bilanciare verità e sensibilità.

In tutti questi casi, la comunicazione non può essere “di pancia”, né lasciata al caso. È una competenza strategica, che determina la percezione di affidabilità, professionalità, autorevolezza.

Persona e ruolo: due piani distinti

Come persona, ognuno ha il diritto di esprimersi liberamente, di dire ciò che pensa, anche senza filtri.
Ma questa libertà comporta anche una responsabilità: la responsabilità delle conseguenze che la nostra comunicazione genera sugli altri, sull’ambiente e sulla relazione.

Nel ruolo professionale, però, questa libertà espressiva è (giustamente) limitata dalle aspettative implicite legate alla funzione che si ricopre.
Quando comunichiamo in modo coerente con il nostro ruolo, non stiamo censurando la nostra identità: stiamo rafforzando la nostra credibilità e la nostra competenza.
È proprio questa coerenza che ci rende più autorevoli, affidabili e riconosciuti all’interno del nostro contesto lavorativo.

Dental Office Manager e Dental Case Manager: la comunicazione come competenza professionale imprescindibile

Tra i ruoli che più di tutti richiedono padronanza di questa competenza, spiccano due figure strategiche: il Dental Office Manager e il Dental Case Manager.

Il Dental Office Manager (approfondisci) è il punto di snodo tra direzione, team clinico e pazienti. Gestisce risorse, flussi, priorità, organizzazione e spesso si trova a mediare tra visioni diverse, necessità operative e dinamiche emotive. Non può limitarsi a “trasmettere informazioni”: deve saper negoziare, ascoltare attivamente, risolvere conflitti latenti e prevenire escalation relazionali, mantenendo autorevolezza e lucidità. È la sua competenza comunicativa a determinare il clima interno dello studio.

Il Dental Case Manager (approfondisci), invece, accompagna il paziente lungo il percorso di cura: spiega, orienta, rassicura, raccoglie dubbi e obiezioni, risponde alle incertezze. Il suo ruolo richiede una comunicazione empatica, modulata e competente, capace di valorizzare il piano terapeutico e di sostenere la relazione medico-paziente in modo continuo e coerente.
Un Case Manager che non padroneggia i principi della comunicazione efficace rischia di trasformare il dialogo in una sequenza di frasi tecniche, incapaci di generare fiducia.

In entrambi i casi, la differenza tra una figura amministrativa “funzionale” e una figura professionale “evoluta” è proprio nella capacità di comunicare con consapevolezza e padronanza, modulando il linguaggio in base al ruolo, all’interlocutore e al contesto.

Chi ricopre questi ruoli non può improvvisare. Deve formarsi, aggiornarsi e affinare le proprie competenze relazionali tanto quanto quelle gestionali. Solo così può essere riconosciuto come professionista a pieno titolo all’interno della squadra odontoiatrica.

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